Parlare de Le mani di Z non è affatto semplice, ad essere totalmente sinceri non lo sarebbe stato in qualunque caso, ma parlarne ora – dopo la prematura scomparsa di Akab (nome d’arte di Gabriele Di Benedetto) – lo è ancora di più.
I suoi lavori sono sempre stati complessi e stratificati e la paura è quella che parlarne ora che non è più tra noi possa in qualche modo influenzare il nostro giudizio, ma ci proveremo lo stesso.
Le mani di Z è una lettura da affrontare lentamente, meglio ancora se due volte, lasciando decantare tra la prima e la seconda volta. In questo modo sarà più facile aprirsi a ciò che Akab ha voluto raccontarci, alla storia di un bambino nato oltre, ora diventato un uomo adulto e mentalmente instabile che si muove per casa vestito da Zorro come se fosse sempre carnevale.
Una storia che si svolge quasi per intero all’interno di un claustrofobico appartamento, quello dove Z vive ingabbiato nella sua angosciante quotidianità fatta di TV, avventure di Zorro e vecchie cicatrici che ne segnano la mente e l’esistenza.
Mani di Z è – purtroppo – l’ultimo atto della carriera di Akab, autore che forse avrebbe avuto ancora molto da dire, ma che purtroppo non avrà più modo di farlo. Un’opera cruda e sicuramente disturbante, nata da un ricordo dello stesso autore e trasformato in un fumetto forte che punta a colpire il suo lettore con una storia disegnata con tratto ruvido e semplice. Una scelta ponderata quasi a voler togliere tutto ciò che è per lui superfluo e può distrarre dalla storia, come ad esempio i colori.
Interfacciarsi con quest’opera non è facile, richiede al lettore di essere nel giusto mood, di lasciarsi andare e mettersi nella stessa posizione in cui si è posto Gabriele, quella di un narratore esterno e totalmente imparziale, che non giudica, ma osserva senza sbilanciarsi. Un punto di vista che potrebbe non piacere a tutti per il suo stile grafico e il suo modo di narrare la storia del protagonista, ma che sicuramente è in linea con quanto Akab ci aveva abituato a mostrarci.
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